La donna delle pulizie, con la voce che le tremava, aveva chiesto quasi in ginocchio al suo datore di lavoro di lasciarle prendere il cibo ormai scaduto. L’uomo, insospettito da tutta quella insistenza, decise di non dire nulla ma di seguirla di nascosto, per capire dove finissero quei sacchi pesanti pieni di alimenti.

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Arcadij Petrovič stava scarabocchiando crocette sul taccuino, tracciando linee svogliate che non diventavano mai un vero disegno. Dentro, però, sentiva solo un buco nero fatto di nostalgia e solitudine. Sullo schermo del portatile, in una foto che conosceva quasi pixel per pixel, lo guardava Azart, il Ca-de-bo che gli aveva regalato il suo migliore amico, Andrej, poco prima di partire anni prima per una lunga missione nell’Estremo Oriente. Insieme, lui e Andrej avevano passato inferni e tempeste; poi, una ferita riportata in zona di guerra aveva costretto Arcadij a dare l’addio all’esercito. Lui si era buttato negli affari, Andrej era rimasto nella carriera militare.

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«Tienilo tu, fratello. Con lui non ti annoierai di sicuro», aveva detto Andrej porgendogli una scatola.
Dentro, un cucciolo tozzo e robusto che Arcadij si era stretto subito al petto. Il piccolo, senza un briciolo di paura, aveva iniziato a trotterellare per la stanza, finendo sulla soglia con una ciabatta in bocca come un trofeo. Così Azart era entrato nella sua vita. Andrej era lontano, ma al telefono chiedeva sempre: «Come sta il cane?». Col tempo, per Arcadij, quel cane era diventato appoggio, famiglia, compagno di tutto.

Il matrimonio con Ol’ena si era spento senza scenate. Nessun tradimento: solo una sera a cena, il silenzio più pesante del solito e una consapevolezza comune.
«Si è spento tutto», aveva sospirato lei.
«Forse è ora di separarci», aveva detto lui, quasi con leggerezza.
Da frase buttata lì si era passati ai documenti firmati. Rimasero corretti e civili l’uno con l’altra, per il bene del figlio, Ženja, che passava spesso il tempo con il padre, soprattutto da quando c’era Azart. Ma non erano più quella famiglia che si ritrovava la domenica a pranzo intorno allo stesso tavolo.

Poi era arrivata Žanna: bella, affascinante, una di quelle donne con cui ti sembra di capirti al volo. Arcadij si era convinto di aver incontrato finalmente la propria metà. Le aveva chiesto di sposarlo, lei si era trasferita da lui. E da quel momento il film era cambiato.
La ragazza dolce e comprensiva aveva lasciato il posto a una donna nervosa, soggetta a sbalzi d’umore. La irritava persino vedere Arcadij aiutare la collaboratrice domestica, Dar’ja Matveevna.

«Mandala via, quella scansafatiche!» sbottò un giorno.
«Senti, Žannochka, non è una schiava. Mi dà una mano. E non voglio più sentirti parlare così di lei», tagliò corto lui.

Col passare dei mesi, i bersagli degli sfoghi di Žanna iniziarono a includere anche Azart.
«Quel cane mi inquieta. È enorme… sembra il Mastino dei Baskerville!»
«Adesso basta», la gelò Arcadij. «Fino a ieri lo riempivi di coccole, ora ti fa paura? È addestrato meglio di parecchie persone. E se un giorno dovessi scegliere tra te e lui… sappi che sceglierei lui.»

Žanna ritrattò subito, chiese scusa, iniziò persino a portare il cane a spasso per “recuperare il rapporto”. Ma pochi giorni dopo rientrò singhiozzando:
«Perdonami, Arcasha… Azart è finito sotto un camion. Non ce l’ha fatta…»

Arcadij pianse, ma in silenzio, da solo. Eppure, un pensiero non lo lasciava in pace: un cane addestrato da professionisti non si butta in strada alla cieca dietro un gatto o una foglia che vola. Qualcosa non tornava.

Un pomeriggio bussarono alla porta del suo studio. Sulla soglia c’era una ragazza esile, giovanissima, lo sguardo abbassato: Veronika, cresciuta in orfanotrofio, appena assunta per le pulizie.
«Perché questo lavoro? Hai l’aria di essere sveglia, potresti fare altro», osservò lui, incuriosito.
«Studio per corrispondenza», rispose lei piano. «Mi serve un lavoro con orari elastici.»

Poi, dopo un attimo di esitazione, aggiunse:
«Posso… prendere il cibo scaduto? Tanto lo buttereste lo stesso…»

Al petto di Arcadij si strinse qualcosa.
«Non ti basta da mangiare? Posso aiutarti io, se serve.»
«Me la cavo», mormorò lei. «Vorrei solo portare via ciò che non usate più.»
«Va bene. Porta via quello che ti serve. E se hai bisogno d’altro, parlane con me.»

Col tempo, i colleghi cominciarono a notare che Veronika usciva sempre con borse gonfie, pesanti.
«Ha roba per sfamare un reggimento», borbottavano nei corridoi.

Una sera, l’inquietudine ebbe la meglio: Arcadij decise di seguirla senza farsi vedere.
La vide prendere l’autobus, scendere in un quartiere vecchio, entrare nel cortile di una casetta di legno e scomparire in un capanno sul retro.

«Eccomi, tesori miei! È ora di pranzo», annunciò lei entrando.

Dal buio uscirono cani. Uno, in particolare, gli fece gelare il sangue. Lo riconobbe subito.
«Azart…» sussurrò, avanzando come in trance.

Il cane esitando si fermò, lo annusò, poi lo travolse di feste, scodinzolando come un matto.

«Lascialo stare! È un randagio!» protestò Veronika, cercando di trattenerlo. Ma il cane aveva già deciso da che parte stare.

Quando lei si voltò e vide chi era l’ospite inatteso, sbottò:
«Tu?! Che ci fai qui?»
«Volevo solo capire se potevo aiutarti davvero», rispose Arcadij, ancora con le mani affondate nel pelo del cane. «E invece ho trovato… lui.»

Lo sguardo di Veronika si fece duro.
«Non è più il tuo cane. Ora si chiama Randagio. L’ho salvato io. Tu l’hai lasciato morire. L’ho raccolto che stava per esalare l’ultimo respiro.»

«Aspetta», disse piano Arcadij. «Diamo da mangiare agli animali, poi ci sediamo a parlare con calma, davanti a un tè.»

Dentro al capanno c’erano gabbie ampie e ripari: gatti che osservavano diffidenti, scoiattoli, un procione curioso, perfino dei mini-maialini che russavano.
«Altro che baracca: questo è un rifugio a tutti gli effetti», commentò lui, guardandosi intorno.
«Non chiamarlo zoo», ribatté lei. «Qua è casa loro. Li ho raccolti dalla strada e dalla cattiveria delle persone.»
«E come fai a curarli tutti?»
«Mio padre era veterinario. Uno dei migliori», disse. «È morto quando avevo quattordici anni, ma mi ha insegnato parecchio. Ora studio in accademia, a distanza.»

Davanti a due tazze di tè fumante, Arcadij chiese con delicatezza:
«I tuoi genitori?»
«Sono morti in un incidente, tornando dal teatro», mormorò lei. «Dopo, solo orfanotrofio. Adesso vivo nella nostra vecchia casa e cerco di continuare quello che lui faceva con gli animali.»

«E Azart? Come è arrivato qui?»
«Era legato alla recinzione del cimitero», raccontò. «Senza acqua né cibo. Piangeva, ma la gente passava oltre. L’ho avvolto nella giacca e me lo sono portato via. Un tassista mi ha dato un passaggio gratis, per fortuna.»

Poi alzò lo sguardo, diretto e senza sconti:
«Se non l’hai abbandonato tu, perché non l’hai cercato? Nessun annuncio, nessun appello.»
«Mi hanno detto che era morto sotto un camion», ammise lui. «Ho creduto a quella versione. Adesso è chiaro che qualcuno mi ha mentito.»

«Allora quella persona non è tua amica», disse Veronika con semplicità disarmante.
«Non lo è più, di certo», confermò Arcadij. «E oggi stesso le metterò davanti la verità.»

Uscì dal capanno con Azart al guinzaglio. Il cane si girava ogni pochi passi a controllare che lui fosse lì, come se temesse di perderlo di nuovo. In macchina, Arcadij compose un numero.
«Žanna, prepara le valigie», disse.
«Andiamo in Thailandia?» trillò lei, già vedendosi in qualche resort.
«Forse, se proprio vorrai», rispose lui freddo. «Per ora, preparati alla mia sorpresa.»

Quando aprì la porta di casa, Azart entrò trotterellando nell’ingresso. Il viso di Žanna impallidì di colpo.
«Lo riconosci, il tuo “cagnolino morto”? L’hai legato tu al cimitero o hai pagato qualcuno per farlo?»

Lei rimase muta, poi mormorò:
«Non so cosa mi sia preso…»
«Io sì: ti sei spinta troppo oltre con i tuoi giochetti sporchi», disse Arcadij. «E a casa mia non c’è posto per questo. Prepara le tue cose.»

Con il costume colorato che stringeva ancora in mano, Žanna vide crollare il suo castello: niente più lusso, niente più domestici, nessuna spa esotica. Solo il ritorno al villaggio, la madre che beve, il compagno senza un lavoro stabile, tre fratellini da accudire, forse un posto al negozietto del paese. E le lingue dei vicini, sempre pronte a sparlare. Si inginocchiò davanti a lui.
«Perdonami, ti prego. Non mandarmi via.»

Arcadij rimase irremovibile. Per lui, quella donna era già il passato. Poco dopo, lei partì per Klûevo.

Col tempo, lui ricucì un rapporto tranquillo e rispettoso con Ol’ena. Scoprì che, a volte, per rimettere in ordine i pezzi della propria vita basta iniziare da un semplice: «Scusami».

Veronika completò gli studi in accademia e ottenne il diploma. In segno di gratitudine per aver salvato Azart e, insieme, avergli aperto gli occhi su chi aveva accanto, Arcadij le regalò una piccola clinica veterinaria, che chiamarono proprio “Azart”.

«Non hai salvato solo il mio compagno più fedele», le disse consegnandole chiavi e documenti. «Mi hai aiutato a capire chi mi voleva davvero bene e chi, invece, mi stava solo usando.»

Veronika sorrise, mentre il cane le spingeva il muso nella mano in cerca di una carezza, e accettò quel nuovo inizio, per sé e per tutti gli animali che ancora aspettavano una seconda possibilità.

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