«Mia cognata, con tutti i suoi capricci, ha sostenuto che non ero degna di quella casa. Le è bastata una sola frase di mio marito per farla zittire all’istante.»

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«Non te la meriti.»
E poi la voce di mio marito fece calare il silenzio.

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Avevo gli occhi lucidi sul portico della nostra prima casa. Tre anni passati in un bilocale che sembrava più uno sgabuzzino che un appartamento, tre anni a fare i conti fino all’ultimo centesimo, a rimandare viaggi, cene, persino tende nuove. E adesso eravamo lì: io e Greg, una chiave nuova nella serratura e la sensazione netta di stare entrando in un’altra vita. Ero incinta di sei settimane — un segreto minuscolo, che ci batteva nel petto come un uccellino spaventato — e mi sentivo piena di luce, proiettata in avanti.

Greg, senior project manager in una grossa azienda tech, mi avvolse da dietro con le braccia.
«È perfetta, Tina. Proprio come la volevamo.»
Io, che lavoro da freelance nel marketing, annuii. Era vero: il suo stipendio aveva contato più del mio per il mutuo, ma questa casa era il risultato della nostra testardaggine combinata. Il sole tagliava il soggiorno in strisce dorate e il seminterrato — con quel micro angolo cottura ordinato e lucido — mi faceva già immaginare serate improvvisate, amici, risate fino a tardi.

«Ti sembra vero che sia nostra?» chiesi, sfiorando l’architrave ancora profumata di vernice.
«Nostra» ripeté lui, posando una mano sul mio ventre ancora piatto.

Il sabato successivo facemmo una piccola inaugurazione. I genitori di Greg, Carol e Jim, arrivarono con una bottiglia di spumante e sorrisi larghi.
«Tesoro, è splendida» disse Carol stringendomi in un abbraccio profumato di talco e lavanda.

Poi comparve Tessa, la sorella di Greg, madre single sui trent’anni abbondanti, con Jacob, il figlio tredicenne. Lui mi corse incontro:
«Zia Tina! È davvero casa tua?»
«Nostra» risi. «Dai, entra campione.»

Jim si fermava davanti a ogni cornice come se stesse al museo, Carol sospirava a ogni stanza, Jacob mi chiese se avrebbe potuto continuare a passare l’estate da noi; gli dissi di sì e il suo sorriso si aprì come un cielo dopo il temporale.
Tessa, invece, passava da una stanza all’altra come se stesse facendo una perizia: occhi stretti, espressione tirata.
«È… più grande di quanto pensassi» commentò, senza un briciolo di entusiasmo.

La presi sottobraccio. «Vieni, ti faccio vedere il seminterrato.»
Scendemmo le scale di legno che scricchiolavano appena, con quell’odore di nuovo che pizzicava il naso. Nell’angolo, il mini angolo cottura: frighetto, forno compatto, pensili in ordine, il lavandino che brillava.
«Quando verrete tu e Jacob, potrete stare qui» dissi. «È quasi un mini appartamento tutto per voi.»

Tessa si fermò di colpo. Negli occhi le passò un’ombra.
«Quando verrete… a casa NOSTRA?» ripeté, calcando la voce su “nostra”, come se la parola le disgustasse.
«Sì, nostra. Mia e di Greg. L’abbiamo comprata insieme.»

Scoppiò a ridere, ma era una risata fredda.
«Sul serio dici che è CASA TUA, Tina?»
Sentii il viso incendiarsi. «Certo che sì.»
«Mettiamo le cose in chiaro. Chi paga il mutuo? Mio fratello prende uno stipendio a sei cifre. Tu… scrivi quei blog pagati una miseria, no? Questa casa è di Greg. Tu ci stai dentro. È diverso.»

Il fiato mi si bloccò in gola.
«Contribuisco anch’io alla nostra famiglia, Tessa.»
Lei alzò un sopracciglio. «Alla famiglia può essere. Alla casa, non esageriamo.»

«Qual è il problema, esattamente?» chiesi, con la voce incrinata.
Le sue parole rimbalzarono contro le pareti vuote.
«Il problema è che sei spuntata nella vita di mio fratello tre anni fa. Io sono sua sorella da trentaquattro. E ora tu ti prendi tutto: la casa, le decisioni, il posto al suo fianco. Prima ero io la beneficiaria della sua assicurazione, io il numero da chiamare in emergenza, io il suo punto fisso. Con te, sono sparita. Dimmi: cosa ti fa pensare di MERITARE tutto questo?»

Quelle frasi mi colpirono come schiaffi.
«Io pensavo… che fossimo famiglia» sussurrai.
«Famiglia? Tu sei solo la ragazza fortunata che ha pescato il biglietto vincente.»

Stavo per ribattere, la gola stretta, quando una voce tagliò l’aria come un coltello affilato.
«Non è fortuna. È amore. È MIA MOGLIE.»

Mi girai di scatto. Greg era in cima alle scale, il volto teso. Scese giù a grandi passi e si mise tra me e sua sorella.
«Se le parli ancora così, non metterai più piede in casa nostra.»

Tessa impallidì. «Greg, io stavo solo—»
«Solo cosa? Umiliarla? Farla sentire un’estranea in casa sua?»
«Sto cercando di proteggerti!»
«Da cosa, esattamente? Dal fatto che sono felice?» La sua voce era ferma, senza esitazioni. «Hai trentiquattro anni e un figlio meraviglioso. Quando hai intenzione di smettere di vivere come se il mondo ti dovesse qualcosa?»

Sull’ingresso del seminterrato comparvero Carol, Jim e Jacob, attirati dalle voci.
«Che succede laggiù?» chiese Jim.
«Chiedilo a tua figlia» rispose Greg, secco.

Tessa serrò le labbra. «Un malinteso, niente di che.»
«Non proprio» dissi io, con le mani che mi tremavano appena. «Ha detto che non merito questa casa. Che non sono di famiglia. Che sono solo ‘la ragazza fortunata’.»

Il volto di Carol si irrigidì.
«Io non la penso affatto così» disse piano. «Per me Tina è famiglia.»
«Anche per me» aggiunse Jim, con uno sguardo duro verso Tessa. «E se tu non riesci a vederlo, forse è il caso che ti chieda il perché.»

Tessa cercò approvazione negli occhi di qualcuno, senza trovarne.
«Benissimo! Allora forse io e Jacob ce ne andiamo.»
«Forse è la cosa migliore» replicò Greg.

Jacob fece un passo verso di noi.
«Io non voglio andare via. Voglio restare con zia Tina e zio Greg.»
«Andiamo» sibilò Tessa.
Carol alzò una mano. «Tessa, vai a calmarti. Quello che hai detto è stato cattivo, e lo sai.»

Tessa rimase un attimo sospesa, indecisa tra rabbia e orgoglio, poi si voltò di scatto.
«Mi dispiace, zia Tina» mormorò Jacob, prima di seguirla su per le scale.

Dopo che la porta si richiuse alle loro spalle, calò quel tipo di silenzio che arriva solo dopo un temporale: l’aria densa, ma più pulita.
Carol mi prese la mano. «Mi dispiace tanto, tesoro.»
Greg lasciò uscire un lungo respiro. «Avrei dovuto fermarla tempo fa. Le ho lasciato passare troppe frecciatine.»
«Oggi mi hai protetta» gli dissi. «Proprio quando ne avevo più bisogno.»

La sera dopo, seduti sull’altalena del portico a contare le stelle che spuntavano una a una, gli mostrai un messaggio di Tessa sul telefono:

“Ok, forse ho reagito male, ma diciamocelo: sei stata fortunata. Non tutti sposano qualcuno con i soldi e possono ‘giocare’ a fare famiglia come se se la fossero guadagnata. Dovremmo chiuderla qui per il bene di Greg. Dimmi se sei abbastanza matura per una conversazione adulta.”

Greg scosse la testa. «Questa non è una scusa. È solo un cerotto messo su una ferita che non vuole guardare.»

Appoggiai la testa sulla sua spalla. «Pensi che prima o poi si possa aggiustare?»
«Non lo so» rispose. «Ma una cosa la so con certezza: tu non devi guadagnarti il diritto di stare qui. Non devi dimostrare niente a nessuno: non a lei, non ai miei, non al mondo. Sei mia moglie. Tu sei casa. Tu e il nostro bambino siete tutto quello che conta per me.»

Forse io e Tessa non diventeremo mai amiche. Forse un giorno abbasserà la guardia, forse no. Intanto, ho un marito che ogni giorno sceglie me, due suoceri che mi trattano come una figlia e un nipote che mi guarda come se tenessi il cielo tra le mani.

E ho una casa. Non solo un tetto con un mutuo, ma un focolare: un posto che mi accoglie e mi riconosce, non perché ho “meritato” qualcosa secondo i conti di qualcuno, ma perché qui sono amata.

A volte, la vera famiglia è quella che rimane accanto a te quando qualcun altro prova a spezzarti. Tieniti stretta a chi ti sostiene: è lì che comincia davvero il significato della parola “casa».

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