Scoprii per puro caso che la mia vicina, che tutti consideravano ricca e realizzata, la sera serviva ai tavoli in un bar del quartiere… e la ragione nascosta dietro a tutto questo mi lasciò davvero senza parole.

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Vivere accanto a Veronica era come abitare di fianco a una vetrina sempre illuminata. La mia vicina sembrava uscita da una rivista: vestiti di marca, SUV lucenti, cani tosati di fresco e accessoriati meglio di me. Tutto in lei gridava lusso e distanza.

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Ogni mattina, dalla finestra della mia cucina, la vedevo uscire dalla sua enorme casa in stile coloniale, sempre perfettamente messa. Giacca, tacchi, borsa firmata al braccio: un singolo capo del suo guardaroba probabilmente valeva più della rata del mio mutuo. I suoi due Yorkshire le trotterellavano accanto, con quei collari pieni di strass che brillavano al sole come piccoli gioielli.

«Che esistenza da sogno», borbottavo tra me e me, girando il cucchiaino nel mio caffè solubile, mentre lei saliva sul suo SUV Mercedes. Io pensavo che forse fosse ora di cambiare le tende del soggiorno; lei, con tutta probabilità, si stava dirigendo verso un altro giro di spese.

Non mi consideravo una persona invidiosa, eppure spesso mi ritrovavo a fantasticare su come sarebbe vivere senza contare ogni centesimo. A volte ci incrociavamo per caso, ai cassonetti, in strada, davanti ai cancelli. Un cenno del capo, un sorriso appena accennato, e nulla di più.

Veronica non era mai espansiva: aveva quello sguardo di chi ti registra, ti valuta, e poi ti archivia come elemento di contorno nella propria vita.

Anche la sua casa contribuiva a questo effetto: il prato perfetto, i fiori sempre in ordine, la vernice fresca. La mia, di fianco, sembrava quasi una versione “prima del restyling”. E poi capitò un episodio che, nella mia testa, sancì definitivamente la sua immagine di donna fredda e altezzosa.

Stavo annaffiando il mio piccolo giardino quando la sua voce tagliò l’aria del mattino.

Alzai lo sguardo: era davanti all’ingresso, con le braccia conserte, mentre affrontava un corriere.

«Non è accettabile!» esclamò. «Sei in ritardo di due ore e la consegna ha un odore terribile.»

Il ragazzo, che conoscevo di vista – lo vedevo spesso fare consegne in zona per mantenersi agli studi – diventò rosso in volto.

«Mi dispiace, signora, c’era un traffico pazzesco…» provò a spiegare.

«Non mi interessano le scuse», lo tagliò subito Veronica. «Penso che…»

Non riuscii a sentire il resto: proprio in quel momento arrivò il camion della spazzatura. Salutai i netturbini, Charlie e Parker, che conoscevo da anni, mentre svuotavano i bidoni chiacchierando.

Quando se ne andarono, il ragazzo era già ripartito, e Veronica rientrava in casa scuotendo la testa.

Scossi la mia, irritata: «Che donna glaciale… non ha nemmeno un briciolo di simpatia», pensai.

Il tempo passava, la routine era sempre la stessa. Ogni mattina portavo a spasso il mio cane Buster passando davanti a casa sua, e quasi sempre vedevo la sua macchina allontanarsi, immaginandola diretta a una spa, a un brunch elegante o a qualche appuntamento di lavoro molto esclusivo.

Poi, un giorno, è successo qualcosa che ha ribaltato completamente la mia idea su di lei.

Stavo facendo un giro per i negozi con mia figlia Lily: chiacchieravamo, dividendo un pretzel ancora caldo, quando ci trovammo a passare davanti a un piccolo caffè dall’aria accogliente, con mattoni a vista e piante alle finestre.

«Mamma, guarda!» esclamò Lily, fermandosi di colpo. «È la signora Veronica!»

Seguii il suo dito e rimasi interdetta.

Dentro al locale, una cameriera in uniforme blu e bianca stava portando ai tavoli un vassoio pieno di tazze fumanti. I capelli castani, lunghi e ondulati, erano identici a quelli di Veronica. Anche il modo in cui muoveva le mani, elegante, sicuro, era lo stesso.

Ma non poteva essere lei.

«Tesoro, non dire sciocchezze», sussurrai, prendendo Lily per mano. «Perché Veronica dovrebbe fare la cameriera? Hai visto dove abita.»

Cercai di scrollarmi di dosso quella sensazione strana, come se avessi visto un’ombra familiare nel posto sbagliato. Eppure, quell’immagine continuò a tornarmi in mente.

Pochi giorni dopo, la curiosità prese il sopravvento.

Vidi Veronica uscire di casa con un tailleur perfetto e una valigetta in mano.

Prima ancora di rendermene conto, avevo afferrato le chiavi della macchina.

«Sono pazza», borbottai, mettendomi in coda alla sua Mercedes a distanza prudente. «Sto davvero pedinando la mia vicina.»

Attraversammo strade eleganti, palazzi direzionali, uffici di vetro e acciaio. Mi rassicurai da sola: «Vedi? È ovvio che quella del bar fosse solo una sua sosia.»

Poi, all’improvviso, lei svoltò verso un quartiere più modesto, pieno di negozi, e il cuore mi fece un salto quando la vidi parcheggiare proprio davanti a quel caffè.

Accostai a mia volta e la osservai.

Veronica scese dal SUV, aprì il bagagliaio e tirò fuori una divisa da cameriera.

Forse percepì il mio sguardo su di lei, perché si voltò di scatto. I suoi occhi si spalancarono, e per un istante il suo viso si fece chiaramente più pallido.

«Oh, cavolo», mi sfuggì sottovoce, mentre aprivo la portiera quasi in automatico.

Veronica richiuse il bagagliaio e si avvicinò.

«Sarah? Che cosa ci fai qui?» domandò, con un filo di tremito nella voce.

«Mi dispiace», balbettai. «Ti ho seguita… Qualche giorno fa mia figlia e io ti abbiamo vista servire ai tavoli, ma pensavo di essermi confusa.»

Lei si voltò verso il caffè, poi tornò a guardarmi. Si aggiustò la divisa tra le mani, come per prendere coraggio.

«Sei sorpresa?» chiese.

«Abbastanza», ammisi. «Non sei proprio il tipo che immaginerei con un secondo lavoro da cameriera.»

Le sfuggì un sorriso timido, ma nei suoi occhi c’era qualcosa di malinconico. «Vieni dentro, ti offro un caffè e ti racconto.»

Il locale, a quell’ora, era quasi vuoto. Veronica mi accompagnò a un tavolino d’angolo e tornò dopo poco con due tazze fumanti, ormai completamente in “versione cameriera”.

«Mia madre ha lavorato qui per quindici anni», cominciò. «Faceva turni interminabili, serviva colazioni e pranzi, sopportava clienti scortesi… tutto per mantenerci a galla.»

La guardai, stupita. Avevo sempre dato per scontato che fosse nata nel benessere.

«Quando mio padre se n’è andato, siamo rimasti solo io, lei e mio fratello Michael», continuò. «Mamma si spaccava la schiena, metteva via ogni centesimo e grazie a lei abbiamo potuto studiare. Era una forza della natura.»

«C’è ancora?» chiesi, quasi trattenendo il respiro.

Scosse lentamente la testa. «No. È morta di cancro quando avevo venticinque anni. È successo tutto così in fretta.» Fece una pausa, inspirò profondamente. «Ogni anno, nel mese dell’anniversario della sua morte, vengo qui a lavorare. Prendo i suoi turni e indosso la sua vecchia divisa.»

«Perché?» domandai, anche se una parte di me aveva già intuito la risposta.

«Per ricordarmi da dove vengo», disse, guardando la sala. «Tutto quello che ho costruito, il lavoro, la casa, la vita che vedi… è il risultato dei sacrifici di mia madre. Lei non mi ha mai vista “sistemata”, non è mai entrata in casa mia. Lavorare qui è il mio modo di stare ancora un po’ con lei.»

Sentii una stretta al petto, pensando a quante volte l’avevo giudicata solo dall’apparenza.

«È un gesto molto bello», sussurrai. «Non l’avrei mai immaginato.» Mi tornò in mente un episodio. «L’altro giorno hai sgridato Tom, il ragazzo delle consegne, vero?»

Lei annuì. «Sì. Mamma era severa sul lavoro: puntualità, rispetto, serietà. Tom era in ritardo di oltre due ore ed era arrivato puzzando di fumo. Magari sono stata brusca, ma è così che sono stata cresciuta.»

«Io credevo semplicemente che fossi una riccona snob che se la prendeva con un povero studente», ammisi, un po’ imbarazzata.

Veronica rise piano. «Non sei la sola. È facile fermarsi alla superficie: il cancello, l’auto, i vestiti dei cani… Ma ognuno ha una storia, e spesso non la racconta a nessuno. Io continuerò a lavorare qui finché questo posto resterà aperto.»

«Allora credo che verrò più spesso a prendere il caffè qui», dissi, sorridendo.

«Perfetto», rispose lei, tirando fuori il blocchetto. «Allora, cosa ti porto per colazione?»

La guardai con occhi diversi. «Tua madre sarebbe orgogliosa di te.»

«Lo spero», disse, segnando l’ordine.

Da quel giorno, Lily ed io siamo diventate clienti abituali del caffè, e Veronica non è più solo “la vicina perfetta”: è diventata un’amica.

I suoi Yorkshire continuano a guardare con sospetto Buster, che ha sempre il pelo un po’ arruffato, ma almeno ora, durante le passeggiate, non mi sento più l’estranea di fianco alla casa da copertina.

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