Avrei dovuto capirlo già sulla soglia dell’elegante villa del mio capo, Richard. Avevo scelto con cura il mio tubino nero, eppure quel disagio sottile non smetteva di graffiarmi lo stomaco. Éric, invece, sembrava nel suo elemento. Forse fin troppo.
«Resta con me stasera, va bene?» gli sussurrai, stringendogli il braccio.
Annuì senza guardarmi; gli occhi gli correvano già tra gli invitati, come in cerca di un segnale.
La serata scivolò via tra convenevoli e calici di champagne. Pensavo fosse solo socialità, il solito networking, ma un’inquietudine vischiosa s’insinuava lenta. Fu allora che Richard mi si avvicinò.
«Denise, hai visto Vanessa?» chiese con apparente calma, mentre lo sguardo tradiva una tensione difficile da mascherare. Vanessa, sua moglie, era sempre impeccabile, sicura di sé.
Scossi il capo. «No. E tu hai visto Éric?»
Ci fermammo un istante a fissarci: la stessa certezza non detta si accese in entrambi. Qualcosa non andava.
Cominciammo a cercarli. Passammo salotti, corridoi, una biblioteca profumata di cuoio e carta. Quando ci trovammo davanti alla porta della soffitta, sentii stringersi un nodo freddo allo stomaco. Richard girò la maniglia: il legno gemette.
Ed eccoli. Éric e Vanessa, avvinghiati in un’intimità che non lasciava spazio a equivoci. Non si accorsero di noi finché un mio sussulto non tagliò l’aria. Éric mi guardò, pallido, gli occhi in fuga in cerca di una scusa inesistente. Vanessa, al contrario, mostrò solo fastidio per l’interruzione.
Non dissi nulla. Mi voltai e me ne andai, mentre attorno a me il mondo perdeva ogni asse. Richard restò immobile, sbiancato dallo shock.
A casa non piansi. Nessuna scena, nessun bicchiere infranto. Solo un vuoto pulito, silenzioso. Quando Éric rientrò, non portò con sé né spiegazioni né rimorsi.
«Perché, Éric?» sussurrai. «Perché lei? Perché adesso?»
Il suo sguardo, freddo come non gliel’avevo mai visto: «Cambia qualcosa? È finita, Denise. Devi andare via.»
«Andarmene? È casa nostra.»
«No. È di mia nonna. Tu qui non hai diritti. Vanessa arriverà tra poco: meglio che tu non ci sia.»
Le parole caddero come pietre. Raccolsi pochi vestiti e uscii. Mi rifugiai in un motel sfilacciato ai margini della città: pareti sottili, luce gialla, un letto che cigolava a ogni respiro. Il peggio, però, era il vortice nella testa.
A notte fonda, due colpi discreti bussarono alla porta.
«Denise? Sono io.»
Richard. Cosa ci faceva lì?
Aprii. Entrò con passo deciso e una borsa scura in mano. I suoi occhi, lucidi di una calma solo apparente, passarono in rassegna la stanza.
«Non puoi restare in questo posto» disse, posando la borsa sul letto.
«Richard, che ci fai qui? E… cos’è quella borsa?»
Ignorò la domanda per un momento. «Questo è un tugurio. Tu meriti di meglio.»
«E cosa proponi, allora?»
Aprì la borsa. Dentro, piccole gabbie. Ratti vivi che si muovevano inquieti.
Rimasi gelata. «Sei impazzito?»
Un mezzo sorriso gli piegò le labbra. «Non possiamo cambiare quello che è successo. Ma possiamo… pareggiare i conti.»
Mi guardò. «Hai ancora le chiavi?»
Annuii. Sentivo il cuore rullare nel petto.
Guidammo senza parlare fino a casa. La rabbia e il dolore, mescolati, avevano un odore di ferro. Davanti alla porta della camera da letto, Richard mi fece cenno. Inspirai a fondo, aprii le gabbie. In pochi secondi, i ratti si infilarono tra lenzuola e vestiti. Ci allontanammo in punta di piedi.
Le urla arrivarono come un’ondata. Io e Richard ci ritrovammo sul marciapiede, il fiato corto, e d’un tratto scoppiai a ridere. Una risata bassa, liberatoria. La prima dopo giorni.
«Hai fame?» chiese lui, voltandosi verso di me.
«Adesso?» rimasi spiazzata.
«Adesso. È un buon momento per ricominciare.»
Aveva ragione. Non era giustizia, forse; di certo non era eleganza. Ma era il mio primo, imperfetto passo fuori dalle macerie.
Quella mattina andammo a fare colazione. E mentre il caffè fumava tra le mani, capii che la mia vita non finiva lì. Stava appena ricominciando. A modo mio.
