— «Sёma, resisti ancora un pochino. Chiudo qui e torno da te» — disse con voce dolce e carezzevole Vasily Andreevič al telefono. — «Non annoiarti senza di me, d’accordo?»
Posò con cura la cornetta e sorrise. A vederlo così, con quel volto severo e lo sguardo pesante, avresti detto un uomo spigoloso; invece custodiva un’anima sorprendentemente tenera. Sapeva che suo nipote se la cavava: Semyon guardava film, leggeva, sapeva persino prepararsi una pasta o una frittata. Eppure, ogni tanto, lo chiamava per dirgli che sentiva la sua mancanza. Forse era un gioco, un modo per chiedere attenzione; a Vasily quelle parole scaldavano sempre il cuore, e lui lo rassicurava, invitandolo a non essere triste.
Erano passati due anni da quando Semyon viveva con lui. Due anni lunghi, sfilacciati dal dolore e dalla lenta risalita verso la vita.
Quel giorno, quando lo aveva riportato a casa, Vasily aveva creduto che il mondo gli fosse crollato addosso. Si sentiva svuotato, come se fosse morto e rinato più volte. Non aveva alternative: l’unica cosa rimasta, dopo la tragedia, era quel bambino di sei anni, lo sguardo perso, staccato da tutto.
Era successo in una sola notte maledetta. Misha, il figlio di Vasily, e sua moglie rientravano in taxi. Mancava un niente all’arrivo, quando un’auto impazzita, guidata da un diciassettenne ubriaco, li travolse. L’impatto fu devastante. Dei tre, sopravvisse solo Semyon. Piccolo, fragile, come un giocattolo spezzato. I medici parlavano di miracolo: la macchina distrutta, i genitori morti sul colpo… e lui vivo, con appena qualche escoriazione. «Un angelo lo ha protetto», mormoravano.
La moglie di Vasily era morta anni prima, e lui aveva cresciuto da solo Misha. Ora la vita gli chiedeva di crescere anche suo nipote. Il dolore lo schiacciava; la domanda «Perché proprio a noi?» non lo lasciava. Ma quando incrociò gli occhi opachi di Semyon capì: se si fosse lasciato andare, il bambino sarebbe rimasto davvero solo. E questo non poteva accadere.
I mesi passarono. Solo dopo sei mesi Semyon ricominciò a somigliare a un bambino. Silenzioso e riflessivo, sì, ma ogni giorno un passo avanti. Vasily tornò al lavoro; all’inizio li aiutava la vicina, Nina Petrovna, una donna dal cuore grande che si affezionò al piccolo.
Nina, però, aveva un chiodo fisso: voleva vedere Vasily di nuovo sposato. Gli presentava amiche, lanciava allusioni. Lui scherzava:
— «Nina Petrovna, allora… mi sposi tu?»
— «E perché no?» ribatteva lei. «Sei ancora giovane, potresti rendere felice qualcuna!»
Vasily prometteva «controllerò», solo per placarla. Alla fine, stanco delle sue trame amorose, chiese il trasferimento in anatomia patologica: lì, pensava, nessuna lo avrebbe disturbato.
Aveva appena cinquant’anni, stava bene, non beveva, era preciso nel suo lavoro. Quella sera il turno stava per finire. Uscì a fumare: era primavera, l’aria sapeva di terra bagnata e rinascita.
Davanti all’ingresso, un cane grande e scuro. Seduto, immobile, triste. Vasily si chinò:
— «Ehi, amico. Hai perso qualcuno? Non piangere… torna a casa.»
Il cane non si mosse. Un’ora dopo era ancora lì, guaiva piano. Strano, pensò: i cani sentono la morte prima degli uomini.
— «Kolya, chi è arrivato oggi? E di chi è quel cane?» chiese a un giovane assistente.
— «Una donna trovata in strada, senza documenti. Forse passeggiava col cane quando è crollata…»
Vasily si avvicinò al lettino. La donna dimostrava sui quarant’anni, nessuna ferita evidente; eppure il volto non aveva la pace dei morti. Le prese la mano — e sussultò.
— «È viva!»
Partì il trambusto. Il polso c’era, sottilissimo ma reale. La rianimarono, chiamarono l’ambulanza. I paramedici, increduli, la portarono via. Il cane abbaiava, quasi festoso, come se avesse capito.
Vasily gli si accovacciò davanti:
— «L’hai salvata tu, fratello. Vieni con me? Ho un nipote che adora i cani. Quando starà meglio, ti riporteremo dalla tua padrona.»
La coda si mosse. Sembrava un sì.
A casa, Semyon corse incontro al nonno. Quando vide il cane, gli occhi gli brillarono.
— «Nonno! È bellissimo!»
Il cane si lasciò stringere, mite. Cenarono insieme; quella notte si accovacciò accanto alla poltrona e non si mosse più.
Il giorno dopo Vasily seppe che la donna — Marina — ce l’aveva fatta. Andò a trovarla. Lei lo accolse con occhi verdi in cui convivevano luce e dolore.
— «Lei mi ha ridato la vita» sussurrò. «Quel cane era di mio figlio. È morto l’anno scorso. Io… non volevo più vivere.»
Quelle parole attraversarono Vasily come una lama: anche lui aveva perso un figlio. Due solitudini si riconobbero.
Da allora, ogni settimana tornava a trovarla con Semyon e il cane — si chiamava Amico. Tra una visita e l’altra, tra le risate del bambino e i silenzi pieni di senso, nacque qualcosa di nuovo.
Un giorno, senza giri di parole, Vasily disse:
— «Marina, vieni a vivere con noi. Non per un po’. Per sempre.»
Lei arrossì.
— «Ma… siamo estranei.»
— «Non più.»
Alla fine accettò. Quando Nina Petrovna lo seppe, batté le mani soddisfatta:
— «Vasja, te l’avevo detto che avresti trovato la donna giusta!»
Qualche mese dopo, con Semyon e Amico al loro fianco, Vasily e Marina partirono per il mare. Sulla riva, in silenzio, celebrarono il loro nuovo inizio.
