“Mia suocera trovò due bambini abbandonati in un vecchio pozzo e li portò a casa mia, chiedendomi di occuparmene. Da allora li ho cresciuti come se fossero i miei, senza fare differenze.”

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Fuori il temporale martellava i tetti, la pioggia cadeva a fili fitti e il cane non trovava il coraggio di entrare: rannicchiato contro il muro, gemeva a bassa voce. Per tutta la mattina Alëna aveva avvertito un peso nell’aria, come se fosse diventata densa, innaturale.

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«Che succede?» domandò, avvicinandosi alla suocera e scorgendo righe di lacrime sul suo viso. Maria Nikitichna srotolò piano una coperta: dentro, un visino grinzoso emise un gemito sottile. «Sono due, sorella e fratello. Li abbiamo trovati in un vecchio pozzo…»

Le ginocchia di Alëna cedettero un istante. Con delicatezza prese il piccolo. Era sporco e gelido, ma il respiro correva regolare. Quegli occhi scuri, enormi, le arrivarono dritti al cuore.

«Nel pozzo? Quello abbandonato, pieno di muffa e muschio?» chiese incredula.

«Sì. Io e Petrovich li abbiamo tirati su all’ultimo. Passavo di lì quando Sharik ha iniziato ad abbaiare verso il pozzo come un disperato. Mi sono avvicinata e ho sentito un pianto. Li hanno lasciati là e sono fuggiti. Nessuno in paese ha perso bambini: devono venire da fuori.»

Alëna strinse il piccolo a sé. «E la sorellina?»

Maria aprì un’altra coperta: una bambina minuscola, fragile. «Sembrano coetanei. Forse gemelli.»

La porta si aprì con uno scricchiolio. Stepan entrò, alto e zuppo di pioggia. «Che succede?» si bloccò vedendo il neonato tra le braccia della moglie.

Maria raccontò in fretta. Stepan ascoltò senza fiatare, poi sfiorò la guancia del bimbo con il dorso delle dita. «Com’è possibile…» La voce gli tremò.

«Domani passa il maresciallo,» disse Maria. «Ho già avvisato l’infermiere: vanno visitati.»

Stepan prese la bimba tra le braccia. Lei spalancò gli occhi e lo fissò, seria, come se capisse tutto. «Che ne sarà di loro?» chiese, con un nodo allo stomaco.

Maria esitò. «Se i genitori non si fanno vivi, andranno in orfanotrofio.»

Stepan guardò la madre, poi la moglie. Posò la mano sulla spalla di Alëna e pronunciò lentamente: «Li teniamo.»

La parola restò nell’aria, corta ma pesante. «Li teniamo,» ripeté Alëna. Dentro di lei qualcosa si sciolse, un calore dimenticato.

Un’ora dopo arrivò l’infermiere. Visitò i piccoli, circa un anno d’età: denutriti, infreddoliti, ma vivi e, contro ogni logica, in condizioni accettabili nonostante il pozzo.

Quella notte dormirono in una culla improvvisata. Stepan si sedette accanto ad Alëna. «Sei sicura?» sussurrò.

«Sì. Domani parlo con il maresciallo e con chi serve. Chiederemo l’affidamento. Questa è la nostra occasione.»

«E se i genitori tornano?» tentennò lui.

«Chi li ha lasciati in quel buio non tornerà,» rispose Alëna, decisa.

Fuori la pioggia scemava in un ticchettio leggero. Uno dei bimbi si mosse: Alëna si alzò a controllare. Erano stretti l’uno all’altra, smarriti ma già loro.

«Come li chiameremo?» chiese Stepan.

«Nadja e Kostja,» sorrise lei. «Speranza e Forza. Un dono arrivato quando serviva.»

Cinque anni volarono come una primavera. La fattoria era cresciuta: nuove serre, una stalla, filari di frutti di bosco. Nadja correva in cucina con un disegno: «Siamo noi quattro, tutti insieme!» Era bionda e instancabile; Kostja, riflessivo, seguiva il padre in ogni faccenda.

«Dov’è Kostja?» chiese Alëna.

«Con la nonna, raccoglie erbe. Dice che le riconosce dal gusto!» ridacchiò Nadja.

Maria Nikitichna era diventata una vera nonna: severa quanto bastava, instancabile quando i piccoli si ammalavano, ferma nei rimproveri senza mai urlare.

Un pomeriggio il telefono squillò: «Alëna! Vieni subito, Maria Nikitichna sta male!»

Il cuore le cadde. Ordinò a Nadja di restare in casa e corse fuori. Trovò la suocera riversa vicino all’orto, Kostja accanto con gli occhi lucidi. Il volto di Maria era cenerino, le labbra blu. Un infarto. L’ambulanza stava arrivando, ma non c’era più tempo.

«Vegliate… su di loro…» sussurrò stringendo la mano di Alëna. «Sono sempre stati vostri…» Furono le sue ultime parole.

La casa si riempì di silenzi. Stepan si fece cupo, distante. I bambini percepivano il dolore: Nadja disegnava la nonna tra le nuvole, Kostja si rifugiava nei libri.

«Andiamocene,» disse un giorno Stepan, a voce bassa. «Vendiamo e ricominciamo altrove.»

«E i bambini?» Per la prima volta, Alëna alzò il tono. «Hanno bisogno di radici, non di fughe.»

Stepan rientrò tardi una sera, odorando di vino. Alëna faticò a riconoscerlo: non era più l’uomo che aveva aperto le braccia a due sconosciuti, ma uno sconosciuto lui stesso. Le notti si riempirono di urla. I bambini si nascondevano. Alëna temette che la famiglia non avrebbe retto.

Poi bussarono. Era suo padre, Viktor Sergeevič, ex ingegnere, vedovo. Non lo vedeva da tre anni. «Ciao, figlia.» Portò con sé un’aria nuova. Mise le valigie nella cameretta libera e con la sua sola presenza rimise in circolo calore.

«Stepan, rifacciamo il tetto del capanno?» propose una mattina, porgendo una tazza di tè. «Mi dai una mano? Da solo non ce la faccio.»

Stepan accettò, quasi stupito di sé. Lavorarono tutto il giorno. Viktor raccontò storie di gioventù; come dopo un lungo inverno, Stepan cominciò ad aprirsi. Alla sera, guardando il tetto nuovo, mormorò: «Grazie.»

«Di che?» sorrise Viktor. «Per essere rimasto.»

«Proprio per questo,» rispose Stepan. E nei suoi occhi tornò una scintilla.

Con l’aiuto del nonno, la casa rifiorì. Viktor aiutava con i compiti, costruiva giochi di legno, leggeva ad alta voce. Dopo un mese, il sorriso di Stepan era di nuovo lì. Una notte strinse Alëna. «Scusami. Credevo di aver perso mia madre e, con lei, me stesso.»

Poco dopo, Viktor vendette l’appartamento in città per comprare un terreno accanto. «Non per me: per i nipoti.» Alëna prese una capra, piantò nuovi alberi, sognò di allargare ancora la fattoria.

Arrivò il primo settembre: zainetti, fiocchi bianchi, occhi lucidi. «Che splendidi gemelli!» esclamò la maestra. «Sembrano specchiarsi.»

Alëna guardò i figli, il marito, e suo padre. Non erano perfetti, ma erano una famiglia.

Gli anni passarono. Da bambini a adolescenti: Nadja disegnava abiti, Kostja progettava congegni e piccoli motori. Litigi, riappacificazioni, e quella corda invisibile che li teneva uniti.

Una sera, seduti intorno al fuoco, Viktor ricordò di quando Kostja aveva aiutato i piccoli dei Petrov a passare il ruscello portandoli sulle spalle. «Hai lo stesso cuore di tuo padre,» disse a Stepan.

Sotto il cielo estivo, Alëna rimase in silenzio. Stepan le prese la mano. «A cosa pensi?»

«Ai ragazzi. Non sanno che li abbiamo trovati in un pozzo.»

«Glielo diremo?» propose lui.

Lei scosse la testa. «A che scopo? Sapere di essere stati abbandonati li spingerebbe a cercare chi li ha lasciati. Non voglio ferire nessuno. Loro sono nostri e basta.»

Quando i gemelli andarono all’università, tornavano spesso con idee e successi: Kostja portava prototipi per la riabilitazione, Nadja bozzetti e piccole collezioni. Viktor ebbe un lieve ictus; grazie alle cure di tutti, tornò presto a casa.

«Perché non ce l’avete detto?» si indignò Kostja.

«Eravate in sessione d’esami,» spiegò Alëna. «Volevamo risparmiarvi ansia.»

Ogni ritorno era festa: il nonno si allenava coi nipoti, Kostja montava un sistema d’irrigazione automatico, Nadja trasformava la sua stanza in atelier.

Una sera, in veranda, Alëna chiese: «Non vi pesa vivere qui, lontani dalla città?»

Kostja alzò lo sguardo alle stelle. «Qui stanno le nostre radici. Le più profonde.»

«Come l’acqua di quel vecchio pozzo,» aggiunse Nadja.

«Grazie,» sussurrò Alëna. Rimasero lì, sotto un cielo pulito, legati da qualcosa più forte del sangue: fiducia, cura, amore.

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