«La figlia del mio compagno ha fatto saltare la nostra cerimonia urlando: “Papà, non puoi sposarla, sei già sposato!”».

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Il mio matrimonio aveva l’aria di una favola. Luci calde, candele profumate, rose ovunque. Avanzavo verso l’altare con il cuore in tumulto, convinta che quel giorno avrebbe suggellato tutti i sogni che avevo accarezzato. Jonathan mi aspettava in fondo alla navata, impeccabile, con quel sorriso che mi aveva conquistata dal primo istante.

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Ci eravamo conosciuti un anno prima, a un barbecue tra amici. Non cercavo nulla, e forse per questo la sua gentilezza mi aveva spiazzata. Da due chiacchiere leggere a serate infinite di risate, confidenze e progetti: così era iniziato tutto. Poi, una sera, il suo volto si era fatto serio.

«Abigail, devo dirti una cosa importante. Ho una figlia. Si chiama Mia, ha quattro anni.»

Lo guardai senza fiato. «Una bambina?»

«È il mio mondo,» continuò, temendo un no. «Dimmi solo se te la senti. Se non è quello che vuoi, meglio essere sinceri adesso.»

Mi presi qualche giorno. Non perché non lo amassi, ma perché volevo essere certa di poter essere all’altezza di quella piccola vita. Quando gli dissi di sì, fissammo un incontro nel nostro bar preferito per conoscere Mia. Mi presentai con una scatola di biscotti al cioccolato; lei, timida, si nascose dietro le gambe del padre. Bastarono pochi minuti e avevamo già creato un linguaggio nostro: mi mostrò la sua stanza, i giochi preferiti, mi tempestò di domande. Quella sera, Jonathan mi sussurrò: «Credo che ti abbia già adottata.» E io, ridendo, ammisi: «Il sentimento è reciproco.»

Col tempo diventammo una piccola squadra. Quando Jonathan mi chiese di sposarlo, Mia fu la prima a saltare di gioia: «Diventerai la mia mamma!» disse stringendomi fortissimo.

Ed eccoci al grande giorno. Mia, damigella d’onore in un vestitino color crema, era raggiante. Tutto filava liscio finché l’officiante pronunciò la frase di rito: «Se qualcuno ha qualcosa da obiettare, parli ora o taccia per sempre.»

«Papà, non puoi sposarla!» squillò una vocina limpida. «Hai già una moglie.»

Il silenzio cadde come un vetro infranto. Sentii lo stomaco serrarsi. «Tesoro… cosa hai detto?» chiesi, incredula.

Mia si alzò in punta di piedi e indicò la finestra. «È lì.»

Tutti si voltarono. Oltre il vetro, una figura femminile ci osservava, una sagoma sfumata che faceva cenno con la mano. Jonathan sbiancò un istante e si diresse verso l’uscita. L’aria nella sala era diventata densa, piena di mormorii.

Mi passò per la testa l’idea più semplice e più terribile: e se Mia avesse ragione? E se ci fosse una parte di verità che non conoscevo?

Dopo qualche minuto, la porta si riaprì. Jonathan rientrò con un’espressione a metà tra l’imbarazzo e il divertimento, seguito da un volto noto: Dani, l’ex babysitter di Mia, che stringeva un grosso orsacchiotto rosa.

«Dani?» sussurrai, sollevando un sopracciglio.

Lei alzò il peluche come un trofeo. «Piacere di conoscerla, Madame Fluff.»

Scoppiarono risatine qua e là. Io rimasi interdetta. «Madame… chi?»

Jonathan si passò una mano tra i capelli, sinceramente divertito: «Quando Mia aveva tre anni, inventammo un gioco. Io “sposavo” questo orsacchiotto e lo trattavamo come se fosse… la mia “prima moglie”. Non ci pensavo da secoli. Ma a quanto pare il titolo le è rimasto impresso.»

Mia applaudì felice: «Papà non può sposare Abi se è già sposato con Madame Fluff!»

Dani scosse la testa, trattenendo a stento le risate. «Ha guardato un sacco di video di scherzi ultimamente. Ci teneva a organizzare una “sorpresa” per il matrimonio. Confesso… non sono riuscita a fermarla.»

La tensione si dissolse di colpo. Prima un mormorio, poi una risata corale che corse come un’onda tra gli invitati. Mi inginocchiai davanti a Mia.

«Piccola peste,» le bisbigliai, «mi hai fatto prendere un colpo.»

Lei mi strinse. «Ma è stato divertente, Abi!»

Jonathan la prese in braccio, fingendo severità: «Signorina, poi discutiamo delle regole ai matrimoni.»

«Non sei arrabbiato?» chiese lei, mordicchiandosi il labbro.

«Come potrei?» le baciò la fronte. «Ma niente altri scherzi, d’accordo?»

«Promesso!» rispose, con quella sincerità teatrale dei bambini. E io sapevo già che non era la sua ultima trovata.

L’officiante, ridendo, si schiarì la voce: «Posso riprendere, ora che lo stato civile di “Madame Fluff” è chiarito?»

Jonathan mi strinse la mano. «Tutto bene?»

«Chiedimelo di nuovo dopo i voti,» sorrisi, sentendo finalmente la leggerezza tornare nel petto.

Pronunciammo le promesse con gli occhi lucidi. Quando arrivò il momento del ballo, gli sussurrai: «Non era esattamente il matrimonio che avevo immaginato…»

«No,» rispose, guardando Mia che danzava con Dani abbracciando l’orsacchiotto rosa, «ma con lei l’imprevisto è parte del pacchetto.»

E in quel momento capii che la vera favola non era una cerimonia senza intoppi, ma una famiglia capace di ridere anche quando la trama devia. Mia stringeva Madame Fluff come se fosse l’ospite d’onore, Dani la seguiva ridendo, e noi due ci tenevamo per mano al centro della pista. Lì, tra una giravolta e l’altra, compresi che la nostra vita non sarebbe stata perfetta; sarebbe stata, però, indimenticabile.

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