Il gelo gli tagliava il volto come mille lame invisibili. Il vento, pungente e crudele, si infilava sotto la giacca intrisa di sudore e neve, ridicolizzando la sua fragile protezione. Nikolaj Parfenov rimaneva immobile sulla riva del Lago Rotondo, poco fuori Mosca, come se i piedi fossero radicati al terreno. Tremava, ma non per il freddo: a scuoterlo era il ricordo di quell’attimo che aveva spezzato la sua vita in due.
Fino a quel giorno era soltanto un padre solo, logorato dalle fatiche quotidiane. I debiti lo schiacciavano, lo stipendio svaniva ancor prima di toccare le sue mani, il frigorifero restava spesso vuoto. Portava sulle spalle calli, occhi infossati e un cuore che pareva di pietra. Ma la sua bambina, Maryana, continuava a guardarlo con speranza, fiduciosa che domani sarebbe stato un po’ migliore.
Quella domenica avrebbe dovuto essere diversa: una semplice passeggiata nel parco, una promessa mantenuta. La neve si accumulava alle caviglie, ma per Maryana era solo un gioco. Camminava stretta alla mano del padre, l’unico appiglio rimasto dopo la morte della madre due anni prima. Per lei, Nikolaj era tutto: madre, padre, compagno di giochi e scudo dal mondo. Ma la sua stanchezza era un fardello visibile in ogni respiro e in ogni passo incerto.
Giunsero quasi al lago quando un suono cristallino interruppe la quiete: due risate infantili. Sul bordo del ghiaccio, due gemelline correvano e ridevano, ignare del pericolo che li circondava. Nikolaj aprì la bocca per gridare, ma non fece in tempo.
Un suono secco, come uno sparo: il ghiaccio si ruppe. Le bambine caddero nell’acqua gelida. Un urlo lacerante, poi il silenzio spezzato solo dal gorgoglio dell’acqua.
Non ricordò di aver mollato lo zaino né di essersi messo a correre. Non ebbe tempo di pensare: c’erano dei bambini in pericolo. E quell’immagine, quella paura di perdere, lo riportò a Maryana. Senza esitazioni, si tuffò nel buio gelido.
Il freddo lo trapassò come aghi, i polmoni bruciavano, le ossa sembravano spezzarsi. Ma continuò a nuotare. La prima bambina si agitava in superficie: la spinse verso l’alto, e mani sconosciute la trassero fuori. Poi vide un cappellino rosa che sprofondava nel fondo scuro. Con tutte le forze rimaste, scese ancora, tastò nel vuoto, finché non afferrò un lembo di stoffa. Spinse quel corpo minuscolo verso la luce, prima che le sue stesse forze lo abbandonassero.
Il buio lo avvolse.
Tre giorni dopo riaprì gli occhi in un ospedale. Pareti bianche, odore di disinfettanti, il bip delle macchine. Davanti a sé, il volto rigato di lacrime di Maryana. Era vivo, dicevano i medici: un miracolo. Ipostermia, arresto respiratorio, minuti sospesi tra la vita e la morte… ma il suo cuore non aveva smesso di battere.
Nei notiziari lo chiamavano “eroe”. I social lo acclamavano, le immagini del salvataggio diventavano virali. Ma lui non si sentiva tale. Aveva soltanto fatto ciò che chiunque, a suo avviso, avrebbe fatto: non si guarda dall’altra parte quando dei bambini stanno annegando.
Non seppe mai come si chiamassero quelle gemelline, né aspettò ringraziamenti. Tornò alla sua quotidianità fatta di bollette, frigorifero vuoto e un lavoro che non bastava mai. Gli eroi non vengono pagati: soprattutto quelli che salvano i figli degli altri.
Poi accadde l’impensabile.
Cinque giorni dopo essere tornato a casa, mentre armeggiava con la vecchia macchina, il rumore di motori possenti squarciò l’aria. Cinque SUV neri entrarono nel cortile, brillando sotto la neve che cadeva lenta. Da uno scese una donna in lacrime. Gli corse incontro e lo abbracciò con forza, presentandosi tra i singhiozzi:
— Sono Natalia Vetrova. Lui è mio marito, Alexej. Lei ha salvato le nostre figlie.
Dietro di lei, uomini scaricavano scatoloni colmi di cibo, vestiti, medicine. Un avvocato gli consegnò documenti: i debiti estinti, un anno d’affitto pagato, un’assicurazione sanitaria. E una proposta di lavoro che gli avrebbe cambiato la vita.
Dal quinto SUV tirarono fuori una bicicletta rossa con un grande fiocco e un biglietto:
“Per Maryana, dalle bambine che non dimenticheranno mai il coraggio di suo padre.”
Nikolaj si inginocchiò. Le lacrime gli scesero senza freno, calde e liberatorie. Non aveva mai chiesto nulla, né soldi, né riconoscimenti. Si era gettato nell’acqua perché non poteva fare altrimenti.
Ora la vita, a modo suo, glielo restituiva. Non come ricompensa, ma come miracolo.
Perché la vera bontà non resta mai sospesa nel vuoto: trova sempre il modo di tornare indietro, come un’eco calda, viva ed eterna.