«Per vent’anni ho ingoiato umiliazioni senza mai replicare. Poi, il giorno del loro anniversario, ho trovato la forza di salire sul palco… Se solo potessero immaginare cosa ho rivelato davanti a tutti!»

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«— Lida, sul tuo menù esiste qualcosa che non sia la solita pasta?» commentò con finto candore Raisa Ivanovna, scrutando la tavola come fosse un banco di prova. La voce le colava sarcasmo, e lo sguardo pareva dire che lì non c’era niente di degno di essere mangiato.

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Lidia si torse il canovaccio tra le dita. Aveva passato l’intera giornata ai fornelli: borsch come da ricetta di famiglia, pirožki impastati con cura, ogni piatto preparato con l’ostinazione di chi vuole essere all’altezza. Le braccia le pulsavano di stanchezza, e nel petto pesava un senso di inadeguatezza che non trovava parole.

— Ho davvero fatto del mio meglio… — mormorò.

— “Del mio meglio”, dice! — sbottò Inna, la figlia minore di Raisa. — Mamma, guarda questi pirožki: li ha modellati un bambino… o un marziano?

Non servì aggiungere altro: la smorfia bastava. Il calore le salì alle guance; Lidia avrebbe desiderato sciogliersi nell’aria o rifugiarsi in cucina, ma le gambe non le obbedivano.

— Arkadij, spiega a tua moglie come si ricevono gli ospiti in questa casa — ordinò la suocera senza staccare gli occhi dai piatti. — Pare che non l’abbia ancora capito.

Arkadij tossì, fissando il bordo del piatto.

— Mamma… è la prima volta che Lida cucina per tutti. Era agitata…

Una difesa tiepida, più una scusa rivolta alla madre che un gesto verso la moglie.

— “Agitata”, già — intervenne Elena, la secondogenita. — Anche noi lo eravamo la prima volta, eppure le mani ci andavano da sole. Qui invece… borsch troppo salato, pirožki ancora crudi. Meno male che gli ospiti non sono arrivati.

— Appunto, gli ospiti — sospirò Raisa Ivanovna. — Che figura faremo? Non siamo gente da mensa aziendale.

Lidia si sentì un animale accerchiato. Dopo sei mesi di matrimonio certe serate le riconosceva: il copione era sempre quello, e la ferita, puntuale, bruciava come la prima volta.

— Posso preparare qualcos’altro — propose piano. — Anche solo un’insalata…

— Non afferri il punto, Lida — alzò gli occhi al cielo Inna. — È tardi. Tra un’ora arrivano tutti. Che diciamo, che la nuora è un disastro?

Le sorelle ridacchiarono. Arkadij, immobile, abbassò lo sguardo. Poteva parlare. Scelse di tacere.

— Meno male che tuo padre non c’è più — sentenziò Raisa, come una lama gettata al centro del tavolo. — Non avrebbe tollerato certi imbarazzi. Sognava per suo figlio una nuora all’altezza…

Quella frase colpì Lidia più di qualsiasi frecciata. Sapeva di non essere stata la scelta del cuore, piuttosto una soluzione discreta: commessa in libreria, modesta, senza legami “importanti”. L’altra famiglia, invece, era un piccolo pantheon: madre stimata, due figlie con carriere lucenti, Arkadij ingegnere. Tutto squadrato, ordinato. E lei, per loro, sempre fuori posto.

— Potrei almeno dare una mano… — insistette.

— Ragazze, lasciatele i piatti — sorrise Elena, troppo dolce per non essere velenosa. — Noi finiamo il resto. Lida, dove serve, aiuti.

— Ottima idea — annuì la suocera. — Impari un pezzetto alla volta. Anche se, alla sua età, siamo già oltre il dovuto…

Lidia aveva ventiquattro anni.

Sapeva cucire, lavorare a maglia, rendere una casa accogliente. Ma lì dentro ogni talento sbiadiva. Si sentiva un’ombra: timida, goffa, fuori registro.

— Va bene — disse. — Lavo i piatti.

Attraversò il soggiorno tra sguardi compiaciuti che le assegnavano il “suo” posto. Era il primo giorno. Poi sarebbero stati vent’anni di variazioni sullo stesso tema.

Gli anni scorsero senza cambiare musica: confronti continui, pretese, spilli appuntiti infilati in ogni gesto.

— Ancora quelle tende tristi? — sibilò un giorno Raisa entrando. — Lida, quando deciderai di mettere a posto l’arredamento? Arkadij non è mica al verde.

— Stiamo stringendo la cinghia — rispose Lidia. — Mettiamo da parte per una casa tutta nostra. Per questo niente “design”.

— “Risparmiate”! — rise Elena. — E lo stipendio di Arkadij dove finisce, sulle tue stoffe di seconda mano?

Lidia tacque. Con quel denaro si pagavano bollette, spesa, medicine per la suocera. I suoi pochi risparmi dal negozio di cartoleria diventavano regali mai benedetti.

— A proposito — aggiunse Raisa, accomodandosi. — Ricordate Olya Petrova, compagna di scuola di Arkadij? L’ho incontrata in banca: impeccabile, sposata con un imprenditore, villa, figli in arrivo…

Lidia strinse i pugni. Un’altra classifica in cui arrivare ultima.

— E voi, i bambini? — attaccò Inna. — Lida, quando pensi di dare un erede ad Arkadij?

— Ci stiamo provando — disse quasi in un soffio.

— “Pianificate”, certo — sbuffò Raisa. — Ai nostri tempi gli schemi li lasciavamo ai contabili: si amava e si mettevano al mondo figli. Oggi prima i corsi, poi la carriera…

Corsi di recitazione: il suo piccolo segreto del sabato. L’unico posto in cui si sentiva viva. Arkadij lo venne a sapere e glieli proibì: “non possiamo permettercelo”. La suocera rincarò:

— Non sei nata per stare su un palco.

— E invece Olya… — riprese Raisa, infaticabile. — Lei sì che sapeva cos’è il dovere.

Lidia si rifugiò in cucina. Appoggiò la fronte al vetro del forno e pianse in silenzio. Oltre la porta continuavano i commenti.

— Arkadij poteva puntare più in alto — decretò Elena. — Una moglie più brillante, almeno.

— Piano, che ti sente — smorzò la madre. — Anche se, in fondo, lo vedono tutti: una topolina grigia.

Entrò Arkadij.

— Perché piangi?

— Non è niente — rispose. — Sono stanca.

— Di che cosa? — fece lui, davvero stupito. — Sei stata in casa.

“In casa.” Come se non avesse fatto turni, visite mediche, spesa, pulizie, cucina.

— Parla con tua madre — lo pregò. — Non mi accettano. Mi misurano, mi deridono.

— Lida, sei troppo sensibile — sospirò. — Bisogna saper gestire lo stress.

Già. “Gestire lo stress.” In cinque anni era diventata un’esperta: inghiottire, sorridere, tacere.

Le ricorrenze erano il peggio. I compleanni, veri tribunali.

— Liden’ka, raccontaci del lavoro — cinguettava Inna. — Vendi ancora penne?

— Lavoro in un negozio di cartoleria — correggeva Lidia.

— Oh, un “ufficio”! — strillava Elena divertita.

— Ricordate quando voleva fare l’attrice? — soffiava Inna. — Una follia!

— Ma se non sa nemmeno parlare in pubblico! — concludeva Elena.

Risate. Arkadij accennava un sorriso colpevole. La suocera scuoteva il capo, giudice imparziale di ogni cosa.

Dentro, Lidia si spegneva. Sogni, progetti, voce: tutto risucchiato.

Con l’arrivo dei figli — prima Maxim, poi Anja tre anni dopo — sperò di guadagnarsi almeno il rispetto. Non successe.

— Maxim piange per niente — notava Raisa. — Colpa tua. E Anja è pallida: la nutri male.

— Mamma, stanno bene — provava a intervenire Arkadij.

— Sani ma gracili — insisteva Raisa. — I miei erano robusti. È la tua “linea” che non regge.

Lidia taceva mentre le insegnavano a fasciare, mentre le cognate criticavano, mentre al nido qualcuno sussurrava: “Chi è quella topolina grigia?”

Taceva. Per vent’anni. Finché le misero in mano un microfono.

Il ristorante “Cortile Russo” ronzava di voci e bicchieri. Raisa Ivanovna troneggiava a capotavola, vestito color vinaccia — “sottolinea il mio rango”, ripeteva. Ottantacinque anni: età da celebrare. Parentado, vicini, ex colleghe di biblioteca: tutti presenti.

Lidia, come sempre, in fondo al tavolo. Da vent’anni, lo stesso posto: lontana dai “pezzi grossi”, a un passo dall’uscita di servizio, pronta a sparecchiare.

— Tocca a Inna! — annunciò il cerimoniere.

Inna prese il microfono e declamò la grandezza della madre e la solidità della “loro famiglia”.

— Mamma ci ha insegnato ad essere donne vere — concluse tra gli applausi — a custodire le tradizioni e a non distrarci con sciocchezze…

Il suo sguardo sfiorò Lidia, una puntura di spillo. Poi fu il turno di Elena: valori, scelte giuste, “non tutti sanno inserirsi in una famiglia colta”.

Il petto di Lidia si fece stretto. Avrebbe retto anche stavolta?

Parlò Arkadij, poi vicini, poi cugini. Un coro di elogi alla festeggiata: saggezza, fermezza, “l’istinto di riconoscere le persone di sostanza”.

— E adesso — sorrise il cerimoniere — diamo la parola alla nostra riservata Lidia! Anche tu, Lidia Petrova, sei parte della famiglia!

Cento occhi su di lei. Qualcuno curioso, qualcuno già divertito.

— Ma non sa dire due frasi in fila — sghignazzò una signora.

— Forza, un augurio! — incalzò l’animatore.

Il microfono le scivolò tra le mani tremanti. Nel locale calò un silenzio teso: persino i camerieri si fermarono.

Guardò Raisa, che attendeva la solita frase di circostanza. Arkadij le fece un cenno: “Dì due parole e siediti”. Le cognate si scambiarono una risatina.

Qualcosa, dentro, si spezzò. Come una corda tirata troppo.

— Sapete — cominciò, con una voce più ferma del previsto — ho taciuto per vent’anni. Vent’anni in cui mi avete spiegato perché non ero degna di voi.

I sorrisi si spensero.

— Ho taciuto quando mi chiamavate “topolina grigia”. Quando mi paragonavate ad altre donne, perdente in partenza. Quando dicevate che i miei figli erano deboli per colpa della mia “genetica”.

Raisa impallidì. Arkadij fece per alzarsi; Lidia lo fermò con lo sguardo.

— Ho taciuto mentre mi insegnavate a fare la madre. Ho taciuto quando ridevate del mio sogno di recitare. “Non sei della nostra cerchia”, dicevate. “Non sei nata per il palco”.

La sala trattenne il respiro. Alcuni abbassarono gli occhi.

— Sapete cos’è stato peggio? — la voce le uscì limpida. — Non le umiliazioni. Il peggio è che io le ho lasciate passare, sperando che un giorno mi avreste rispettata.

Si voltò verso la suocera.

— Raisa Ivanovna, hai lavorato tutta la vita tra i libri. Dici che contengono la saggezza dei secoli. Eppure in vent’anni non ne hai letto uno: quello del cuore delle persone. Non hai mai voluto capire che cosa fa il tuo giudizio a chi ti sta davanti.

— Lida… — sussurrò Arkadij. — Non farlo.

— Devo. — Gli occhi negli occhi. — Avrei dovuto farlo vent’anni fa, la prima volta che mi hai lasciata sola davanti alle loro risate. Tu tacevi. Io pure.

Si raddrizzò, ancora con il microfono in mano.

— Buon compleanno, Raisa Ivanovna. Ti auguro di scoprire che il valore non sta nelle origini. E a voi tutti — li abbracciò con lo sguardo — auguro di non dover mai occupare la mia sedia in fondo al tavolo.

Posò il microfono. Uscì.

Fuori, l’aria della notte le entrò nei polmoni fresca, nuova. Per la prima volta in vent’anni respirò senza peso. Non sapeva dove sarebbe andata. Sapeva solo che non avrebbe più fatto dietrofront.

Il telefono tremò senza sosta: Arkadij, la suocera, le cognate. Spiegazioni, scuse, rientra. Lidia silenziò tutto. Sedette su una panchina e fissò le stelle.

Tre giorni dopo firmò l’affitto di un monolocale in periferia. Portò con sé l’essenziale: documenti, qualche foto dei figli, due o tre libri del cuore. Il resto rimase dall’altra parte della linea che aveva tracciato al ristorante.

— Mamma, te ne vai davvero? — chiese Maxim, quindici anni.

— Da voi non me ne vado mai — lo strinse forte. — Mi allontano solo da chi mi ferisce.

I ragazzi compresero più di quanto lei temesse. Anja le confessò:

— Mamma, lo vedevo da tempo come nonna e le zie ti bucavano. Mi dispiaceva. Non sapevo come aiutarti.

Sei mesi volarono. Lidia trovò lavoro come manager in una piccola casa editrice: finalmente libri, non cancelleria. Lo stipendio era modesto, ma bastava. Il sabato tornò ai corsi di recitazione. Le mani, sul palco, non tremavano più. La voce le usciva morbida e intera.

— Hai un temperamento drammatico raro — disse l’insegnante. — Porti in scena una profondità che non s’impara.

— Ho vissuto — sorrise lei. — Quanto basta.

Arkadij veniva una volta a settimana con i figli. Le conversazioni cambiarono tono: niente lezioncine, niente sottomissione. Due adulti, finalmente.

— Mamma dice che l’hai fraintesa — provò lui, un giorno.

— Abbiamo frainteso abbastanza per una vita — rispose calma Lidia.

— Inna e Lena dicono che le hai diffamate…

— Non devo giustificarmi con nessuno — lo interruppe. — Ho detto la verità. Se punge, è perché entra nella pelle.

Per i suoi quarant’quattro anni, Lidia organizzò una festa in un caffè raccolto. Colleghe, la vicina Galina, l’insegnante, e Sveta — l’amica che aveva ritrovato dopo anni.

— Sei tornata te stessa — le disse Sveta. — Ti ricordavo luminosa, poi ti eri spenta. Ora brillano di nuovo gli occhi.

— Ho smesso di spegnermi da sola — rispose.

I figli le regalarono un biglietto per il teatro. Anja disegnò un cartoncino: “Alla mamma più coraggiosa del mondo”.

La sera, svuotata la sala, Lidia restò alla finestra a guardare le luci. Il telefono, muto. Nessuno a chiedere conto, nessuno a insegnarle la vita.

Domani era domenica. Prima la prima a teatro, poi una passeggiata lungo il fiume, magari un libro al parco. Il suo tempo, la sua scelta, la sua strada.

Sorrise. E pensò:

«Forse, finalmente, ho preso il volo.»

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