“«Perché gli parli? Non è che abbia perso la voce.» I compagni di classe non capivano. Eppure solo lui sapeva dove fosse finito quel bambino.”

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In ogni classe esiste sempre qualcuno che non riesce a fondersi con il gruppo. Silenzioso, riservato, distante. All’inizio diventa bersaglio di prese in giro, poi semplicemente smette di essere notato, come se fosse invisibile.

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Nella loro scuola quel qualcuno si chiamava Vanya.

Non aveva mai pronunciato una parola. Non durante le lezioni, né negli intervalli, né a casa. Mai. L’insegnante diceva che non era muto, era solo una sua peculiarità: non parlava di sua iniziativa. Nessuno però sapeva il motivo. Non riusciva o non voleva? Mistero.

«Perché perdi tempo con lui? Tanto non parla!» ripetevano i compagni quando videro Masha sedersi accanto a lui, un giorno, durante la pausa.

Vanya stava rintanato in un angolo del corridoio, le spalle contro il muro, le gambe piegate. Guardava oltre la finestra, come immerso in un film invisibile agli altri. Non aveva libri, telefono o gomme da masticare: rimaneva lì, assorto nei suoi pensieri.

Masha si avvicinò piano e si sedette accanto a lui.

«Ciao,» disse a bassa voce. «Io sono Masha. E tu sei Vanya. Lo so.»

Lui non si mosse, non la guardò. Ma il suo silenzio non era vuoto: ascoltava, con un’intensità che non passava inosservata.

Rimasero immobili cinque minuti. Poi lui si alzò e se ne andò.

E lo stesso accadde il giorno dopo. E quello dopo ancora. Non era pietà quella di Masha, ma un bisogno di autenticità: accanto a lui non servivano maschere, pettegolezzi o pose. Poteva semplicemente essere se stessa.

All’inizio i ragazzi ridevano. Poi iniziarono a scambiarsi occhiate curiose. Infine smisero di fare caso a quella strana amicizia: diventò parte dello scenario quotidiano.

Finché, un pomeriggio di primavera, accadde qualcosa.

Nel cortile della scuola scoppiò il panico: era scomparso un bambino piccolo, Kirjushka, di tre anni. Giocava sotto casa, la mamma si era distratta un attimo e non c’era più. Tutti corsero ovunque a cercarlo: al parco, nei garage, tra i cassonetti.

Vanya rimase immobile, lo sguardo fisso in un punto. Masha gli si avvicinò:
«Vanya? Sai qualcosa?»

Lui non rispose. Si limitò ad alzarsi e partire di corsa. Masha lo seguì, senza sapere perché.

Si fermarono davanti a un vecchio capanno abbandonato dietro la scuola. La porta era socchiusa. Vanya indicò l’interno.

Masha entrò piano, chiamando il bambino. Un fruscio, poi una vocina flebile: «Mamma…»

Il piccolo era lì, nascosto dietro alcune casse, spaventato ma vivo. Masha lo prese in braccio e lo riportò fuori. La madre scoppiò in lacrime, la folla applaudì. Tutti ringraziarono Masha.

«Come hai fatto a trovarlo?» le chiesero.

Lei si voltò verso Vanya: «Non io. È stato lui.»

Gli sguardi si posarono increduli sul ragazzo taciturno. «Quello? Il muto?»

Masha scosse la testa. «Non è muto. È solo diverso. E ha visto ciò che noi non vedevamo.»

Fu allora che, per la prima volta, Vanya mosse le labbra e pronunciò una parola: «Grazie.»

Quel giorno cambiò tutto. Non di colpo, non come nei film. Ma piano, con piccoli gesti concreti. Smisero di definirlo “strano”. Quando passava nei corridoi, lo salutavano con un cenno, a volte con un sorriso.

Il suo silenzio non faceva più paura. Era diventato parte della vita comune, come una pausa in una melodia: densa di significato.

Con il tempo, Vanya iniziò a comunicare scrivendo. Masha gli regalò un quaderno rosso, e cominciarono a riempirlo di appunti, battute, segreti condivisi. Quel quaderno divenne il loro mondo silenzioso, vivo e autentico.

Poi, lentamente, arrivarono anche le parole. Prima solo per Masha, poi per la madre, poi per l’insegnante. Non era più “quello che taceva”, ma colui che sapeva ascoltare.

Alla fine dell’anno scolastico, durante la cerimonia, Vanya salì sul palco. Con voce calma disse al microfono:

«A volte, per imparare a parlare, basta che qualcuno si sieda accanto.»

E tutta la sala si alzò in piedi. Non per compassione, ma perché sapevano che quelle parole erano vere.

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