«Signora, non ha il biglietto. La prego, scenda dall’autobus», disse l’autista con tono brusco, guardando la donna anziana che, con un vecchio cappotto logoro, si aggrappava debolmente al corrimano per non perdere l’equilibrio.
L’autobus era quasi vuoto. Fuori, una pioggia gelida cadeva lenta, mentre il cielo grigio avvolgeva la città nel crepuscolo. La donna non proferì parola, stringendo con forza la sua borsa consumata, quella usata per fare la spesa.
«Le ho detto di scendere! Questo non è un ospizio!» alzò la voce l’autista, esasperato.
Un silenzio carico calò nell’autobus. Alcuni passeggeri evitarono lo sguardo, come se volessero non vedere. Una giovane vicino al finestrino si morse il labbro, nervosa. Un uomo con un cappotto scuro aggrottò la fronte, ma rimase seduto.
La donna si mosse lentamente verso l’uscita, ogni passo sembrava un peso insopportabile. Le porte si spalancarono con un fischio gelido, e un vento tagliente le sferzò il volto. Rimase ferma sul gradino, fissando l’autista negli occhi.
Poi parlò, con voce bassa ma decisa:
«Una volta ho messo al mondo persone come lei. Con amore. E ora non posso nemmeno sedermi.»
Dopodiché scese e si allontanò.
L’autobus rimase fermo, le porte aperte. L’autista si voltò, come a voler scacciare quei pensieri che lo tormentavano. Da qualche parte, in fondo, si sentì un singhiozzo. La ragazza al finestrino si asciugò le lacrime. L’uomo col cappotto si alzò e si avviò verso l’uscita. Uno dopo l’altro, i passeggeri abbandonarono i loro biglietti sui sedili e scesero.
In pochi minuti il mezzo fu vuoto, tranne che per l’autista, seduto in silenzio, con un rimorso non detto che gli bruciava dentro.
Intanto, la vecchia donna camminava lentamente sulla strada imbiancata dalla neve. La sua figura svaniva nel crepuscolo, ma ogni passo emanava dignità.
La mattina seguente, l’autista si presentò al lavoro come sempre: all’ora precisa, con il thermos di caffè e la lista delle fermate. Ma qualcosa dentro di lui era cambiato per sempre.
Non riusciva a scrollarsi di dosso quella sensazione di pesantezza. Aveva dormito poco, tormentato dal ricordo di quegli occhi — non arrabbiati, né offesi, solo stanchi. E dalle parole che gli rimbombavano in testa: «Ho messo al mondo persone come lei. Con amore.»
Durante il suo giro, cominciò a osservare con più attenzione i volti degli anziani alle fermate. Sperava di incontrarla di nuovo, senza sapere esattamente perché. Forse per chiedere scusa? Per offrirle una mano? O almeno per riconoscere il suo errore.
Passò una settimana.
Una sera, verso la fine del turno, scorse una figura familiare alla fermata vicino al vecchio mercato: minuta, curva, con la stessa borsa e il cappotto consunto.
Fermò l’autobus, aprì le porte e scese.
«Nonna…» mormorò piano. «Mi dispiace. Quella sera… ho sbagliato.»
Lei alzò lo sguardo verso di lui e, con un sorriso dolce, gli rispose senza rancore né rimprovero.
«La vita, figliolo, insegna a tutti. L’importante è saper ascoltare. E tu hai ascoltato.»
La aiutò a salire, facendola sedere davanti. Poi tirò fuori il thermos e le offrì del tè. Viaggiarono in silenzio, ma era un silenzio carico di calore, come se curasse entrambi.
Da quel giorno, l’autista portava sempre con sé qualche biglietto extra, per chi non poteva permetterselo. Soprattutto per le nonne.
Ogni mattina, prima di iniziare il turno, ripensava a quelle parole. Non erano più solo un rimorso, ma una lezione di umanità.
La primavera arrivò all’improvviso. La neve si sciolse e ai punti di fermata apparvero piccoli mazzi di bucaneve — nonne che li vendevano, tre fiori avvolti nella carta trasparente. L’autista cominciò a riconoscerle, a salutarle, a offrir loro una mano per salire sull’autobus. A volte bastava un sorriso per far brillare i loro occhi.
Ma quella nonna in particolare non la rivide più.
La cercò ogni giorno. Chiese in giro, la descrisse. Qualcuno disse che abitava oltre il ponte, vicino al cimitero. Nei giorni liberi andò a cercarla, senza divisa né autobus, solo camminando.
E un giorno la trovò: una semplice croce di legno con una fotografia ovale. Quegli stessi occhi.
Rimase lì a lungo, in silenzio. Gli alberi frusciavano e la luce filtrava tra i rami.
La mattina dopo, sul sedile anteriore del suo autobus, giaceva un piccolo mazzo di bucaneve. Li aveva raccolti lui stesso. Accanto, un cartello scritto a mano recitava:
«Per chi è stato dimenticato, ma non ci ha mai dimenticati.»
I passeggeri lessero in silenzio. Qualcuno sorrise, qualcun altro lasciò una moneta sul sedile. L’autista riprese il viaggio, più lento, più attento. A volte si fermava prima, per aspettare una nonna.
Perché ora sapeva: ogni nonna è la madre di qualcuno. Ogni sorriso è un grazie. E anche poche parole possono cambiare la vita.